Estenio Mingozzi

Estenio Mingozzi è un architetto molto apprezzato in Italia e all’estero. Internato durante il secondo conflitto mondiale in vari campi in Polonia e in Germania, tra cui anche Sandbostel, Estenio Mingozzi si diletta nello scrivere e pubblicare racconti, e proprio su Sandbostel ha scritto un piccolo opuscolo intitolato “Caterina e il mio D-Day”, che abbiamo ricevuto grazie al cugino Ivano De Vietro, radioamatore col nominativo I4DVT.

Suddiviso in cinque paragrafi (I veterani di Omaha, La prodigiosa Caterina, Il tormentone delle ciliegie, La grande notizia, La notte della rabbia), il racconto, dopo aver descritto la “prodigiosa Caterina”, lega temporalmente l’episodio della raccolta delle ciliegie (riferito anche da Guareschi in Ritorno alla base [1]) con la diffusione nel campo della notizia dello sbarco in Normandia, e la successiva rabbia degli aguzzini, che si scatenò in una durissima perquisizione delle baracche [2].

“CATERINA” E IL MIO D-DAY

di Estenio Mingozzi

I veterani di Omaha

La mattina del prossimo 6 Giugno su quella famosa spiaggia della Normandia ci saranno ancora i veterani. Sempre meno numerosi, sempre più curvi e acciaccati ma con lo sguardo ancora fiero, imperlato di lacrime. Ma i discorsi ci saranno ancora tutti, e anche le bandiere. Anzi, ce ne sarà in campo una in più, rispetto a quell’alba del 1944: la bandiera dell’Europa. È un vessillo carico di ideali e di speranze, ma ancora troppo giovane. Prenderà il vento con garbo, quasi con timidezza, al cospetto delle altre già così stanche ma tanto impregnate di storia e di ricordi.

Sappiamo tutti quanto sia importante trasmettere la memoria, ma come potranno i giovani rendersi conto di quello che accadde veramente su quelle spiagge insanguinate? Riesce difficile anche a me che quel giorno lo vissi da dentro. Anche se mi reggevo appena in piedi, chiuso in un Lager e lontano un migliaio di chilometri dallo sbarco.

La prodigiosa Caterina

Un giorno di gioia come quel 6 Giugno rischiò, verso sera, di trasformarsi in tragedia per colpa di Caterina. Quella non era una donna (magari ce ne fosse stata qualcuna nel Lager!) ma una minuscola radio ricevente segreta. Illustri storici inglesi e americani l’hanno poi esaminata con meraviglia, definendola un monumento alla ingegnosità e alla capacità di arrangiarsi degli italiani. Non risulta che prigionieri nei lager di altre nazionalità siano mai riusciti a tanto.

Ancora oggi mi domando come abbia potuto superare tante snervanti perquisizioni l’unico pezzo entrato nel campo XB di Sandbostel: una valvola 1Q5 che avevano nascosta dentro una borraccia opportunamente lavorata nel fondo. Nell’insieme Caterina misurava appena cm 9x10x5 ma poteva ricevere abbastanza bene Radio Londra, anche se molto disturbata dai tedeschi. Tutto il resto, costruito dal niente nel Lager attorno a quella valvola, ha dell’incredibile.

Guareschi, che di quella radio era l’anima, ce lo ha descritto con molta precisione. Basti pensare che la pila di accensione inventata dall’ing. Olivero era formata da un ex vasetto di carne contenente un pezzo di carbone avviluppato in uno straccio e da un pezzetto di lamiera di zinco tagliato dalla rivestitura dei lavatoi. Il tutto era immerso in una soluzione di sale da cucina e ammoniaca, quest’ultima ottenuta dosando orina e capelli.

Il condensatore variabile di sintonia era ottenuto col lamierino di una ex scatoletta di carne e pezzetti di celluloide tagliati da buste portatessere. L’antenna consisteva in un filo che partiva da un chiodo e aveva il capo libero unito ad un pezzo di stagnola che veniva stretta fra i denti da Olivero.

La resistenza fissa era formata da carta da margarina strofinata con la grafite delle matite, mentre la cuffia era costituita da un portasapone da barba, cartone, cera di candela, filo isolato e magnetini. Questi ultimi erano stati tolti, con grande rischio, dalla dinamo (poi rimontata) di una bicicletta. Proprio quella che il sergente addetto all’ufficio pacchi lasciava solitamente appoggiata alla baracca.

Non meno strabiliante era la batteria anodica costruita con venti monete da due soldi racimolate fra i seimila ufficiali, venti dischi di zinco dei lavatoi, venti dischi di panno ritagliati da una coperta e acido acetico trovato in qualche scatoletta da casa. Il tutto riusciva a fornire 20 volt teoretici per tre quarti d’ora di ricezione.

Pittoresca era la regolazione micrometrica del comando della reazione ottenuta allontanando o avvicinando dal pavimento inumidito il piede di Olivero che penzolava dal castello. Lo stesso che, con la stagnola fra i denti attaccata al filo, faceva da antenna.

Questa era la prodigiosa Caterina che funzionava in segreto cambiando continuamente baracca per difendersi dai falsi ufficiali italiani (quasi sempre bolzanini) che ogni tanto venivano introdotti nel campo per spiarci.

Gianni Arduino, l’ex commissario del mitico Rex che parlava perfettamente l’inglese, stenografava le notizie di Radio Londra e poi andava in giro, di baracca in baracca, per comunicarle ai fiduciari. Arduino era il mio amico fraterno che dormiva di fianco a me, al terzo piano del castello a sei posti. Con lui dividevo rischi, patate e pacchi da casa, perciò io ero sempre fra i primi a conoscere le notizie.

In quel periodo non erano buone perché i russi avanzavano troppo lentamente e il fronte italiano era ancora bloccato sulla Linea Gotica. La domanda che ci ponevamo era purtroppo sempre la medesima: “Di questo passo ce la faranno a liberarci prima che siamo crepati tutti di stenti o di tifo petecchiale?”

Il tormentone delle ciliegie

Alla fine del maggio 1944 avevamo appena smaltito il tormentone delle ciliegie. Solo un disperato sussulto di orgoglio, che ci era costato interminabili discussioni e notti insonni, ci aveva consentito di resistere a una proposta talmente allettante da scardinare le nostre difese.

Visto che, pur avendoci ridotti allo stremo, non erano riusciti (tranne poche eccezioni) a farci aderire alla Repubblica Sociale, i tedeschi avevano ripiegato sul tentativo di farci almeno lavorare per loro. Ma siccome c’era di mezzo la Convenzione di Ginevra che imponeva agli ufficiali prigionieri di rifiutarsi (vedi il famoso PONTE SUL FIUME KWAI), non restavano che altre due alternative: o negare a noi la qualifica di prigionieri di guerra declassandoci al rango di deportati qualsiasi o costringerci ad accettare il lavoro volontariamente, pur di uscire da quell’inferno.

Visto che, nonostante le privazioni, non mostravamo intenzione di mollare, avevamo escogitato una proposta difficile da rifiutare: andare per due settimane a raccogliere le ciliegie nelle vaste fattorie della regione.

Più che un lavoro quella sembrava una specie di scampagnata in mezzo alla natura, col vantaggio di un pieno di vitamine e di zuccheri che poteva salvarci la vita. E poi non sarebbero state certamente quelle poche tonnellate di ciliegie sottratte agli uccelli a far durare la guerra un minuto di più.

La proposta era così vantaggiosa sotto tutti i punti di vista che ci mise in crisi. Solo a immaginarci su quelle scalette a riempirci la bocca di ciliegie ci veniva l’aquolina in bocca. Non per modo di dire, ma tanto vera da costringerci spesso ad inghiottire, per non dover sbavare come fanno i cani davanti alla ciotola fumante.

Quando molti di noi erano già mezzo convinti di accettare la proposta ci pensò Guareschi, col suo BERTOLDO PARLATO per gli italiani all’estero, a darci uno scrollone. Vi si raccontava che uno di noi, tornato finalmente a casa a guerra finita, non aveva voluto bruciare la divisa sbrindellata e pidocchiosa e così la moglie si era prestata a bollirla e ripulirla con sapone e lisciva. Poi, mentre la stirava alla meglio prima di portarla in soffitta, nel cassone dei ricordi, gli aveva detto:

“Strano, dopo tutto quello che ho fatto c’è rimasta ancora una macchia. È rossa, proprio sulla posizione del cuore. Ma cosa sarà?”. Il reduce, che stava lì accanto leggendo il giornale, le rispose a voce bassa, come se si vergognasse: “Non insistere, perché non andraà mai via. È una macchia di ciliegia.”

Come se non bastasse ci si misero anche i nostri ufficiali medici. Erano in cinque e si trovavano d’accordo soltanto sul rischio mortale che, ridotti in quelle condizioni, poteva rappresentare un albero di ciliegie mature. Ma sulla quantità i pareri erano diversi. I più pessimisti dicevano che nei primi tre giorni non bisognava assolutamente superare il mezzo chilo. E noi a chiederci: “Ma staranno in mezzo chilo?”. Un coltivatore di Vignola che se ne intendeva rispose subito: “Non più di due manciate, e non troppo abbondanti”. Poi si cercò di risalire al numero e ci si accordò sulle trenta-trentacinque pur non sapendo se le ciliegie tedesche fossero più grosse o più piccole di quelle di Vignola. Alla fine il coltivatore concluse con una smorfia di disgusto: “Di sicuro, rispetto alle mie, non sapranno di niente”.

La faccenda era diventata tanto importante che, all’appello della domenica mattina, il Vicecomandante del campo in persona (si diceva che fosse un professore di filosofia) sentì il bisogno di rinnovare l’esortazione. Gli altoparlanti gracchiavano e fischiavano e nell’immenso piazzale nessuno capì una parola, tanto più che lui parlava un tedesco motlo strtto. Ci pensò il nostro interprete ufficiale a tradurre il discorsetto. Era un maggiore di marina piuttosto sbrigativo che, per non bagnarsi i piedi e farsi vedere da tutti si era costruito un paio di trampoli di legno alti una quarantina di centimetri. Alla fine, usando un tono sprezzante e così carico di sarcasmo da far venire i brividi, concluse così: “Dunque… avete capito bene cosa ci ha detto il signor Vicecomandante? Perciò, se qualche signor ufficiale italiano è disposto ada andare a raccogliere le ciliegie per i tedeschi, deve mettersi in lista alla baracca Comando entro domani a mezzogiorno”.

Prima che gli altoparlanti si zittissero udimmo la voce del Colonnello che, tutto soddisfatto, gli diceva: “Gut, sehr gut” (bene, molto bene). Segno che non aveva capito niente.

Andò a finire che si presentarono in pochissimi, una ventina in tutto. Due di loro non rientrarono più perché erano morti di indigestione all’ospedale, tre giorni dopo l’uscita dal campo.

La grande notizia

Una settimana dopo si stava ancora discutendo, quasi rimpiangendole, su quelle maledette ciliegie quando, verso le 16 del 6 giugno, Caterina riuscì a captare la grande notizia. Un comunicato straordinario informava il mondo intero che, nonostante il mare in burrasca, lo sbarco alleato (il più imponente nella storia dell’umanità), era riuscito. Non nello stretto di Calais dove tutti se lo aspettavano, ma sulle coste della Normandia. La testa di ponte si stava velocemente consolidando con l’aiuto anche di massicci lanci di paracadutisti alle spalle del Vallo Atlantico.

Io fui tra i primi a saperlo, direttamente da Arduino che era piombato in baracca tutto trafelato, paonazzo per l’emozione. Me lo aveva sussurrato all’orecchio aggiungendo: “Stiamo attenti a tenere sotto controllo i più scalmanati perché i tedeschi saranno giù di testa dalla rabbia e qui dentro potrebbe succedere di tutto.”.

Purtroppo, nonostante il saggio passaparola: “Fate conto di niente altrimenti ci ammazzano tutti” furono in troppi a non riuscire a contenersi. Due ore dopo, mentre eravamo schierati nel piazzale per l’appello della sera, l’euforia era talmente incontrollabile che le file si scomponevano di continuo. Le sentinelle, abituate a vererci fermi e allineati come birilli non riuscivano a capacitarsi ed urlavano: “Was ist das?” (ma cosa è questo?). Perfino i terribili cani dobermann erano nervosi e ci venivano contro digrignando i denti. Eravamo molto preoccupati e ci passavamo la voce: “Bisogna stare fermi perché i tedeschi non lo sanno ancora”.

Finalmente, siccome i conti tornavano, potemmo rientrare nelle baracche. Lo facemmo tutti anche se la giornata era più calda del solito. Non era mai accaduto che, di giorno, i piazzali restassero così deserti. Nell’attraversarli per andare alla baracca dei gabinetti mi sentivo di vivere un momento straordinario, come davanti ad una eclissi di sole. Anche le sentinelle sulle torrette erano in allarme. Le avevano raddoppiate e brandivano vistosamente le mitragliatrici, coi nastri dei propiettili che brillavano ai raggi del tramonto.

Verso le nove, quando c’era ancora luce, Caterina ci diede le ultime notizie da Londra: la battaglia era molto dura ma la testa di ponte si stava allargando con l’aiuto dei carri armati pesanti che avevano già cominciato a prendere terra, fin dal mezzogiorno.

La notte della rabbia

Eravamo tanto eccitati che pochi di noi erano riusciti a prendere sonno. Ma nella baracca c’era finalmente silenzio e si poteva fantasticare in libertà, cullati dalle speranze che quello sbarco ci aveva regalato. Purtroppo non si potevano dimenticare le minacce che, dopo ogni avanzata dei russi, le SS si divertivano a rivolgerci.

Lo facevano con un sadismo così ostentato che gridava vendetta. In sostanza ci dicevano: “Sappiamo che fate il tifo per i russi ma non sperateci troppo perché, quando arriveranno qui, non ci sarà più nessuno da liberare. Avete presente cosa disse Sansone prima di far crollare il tempio? Voi siete i nostri Filistei e farete la fine del grande Sansone”.

All’improvviso, verso mezzanotte, la porta della baracca fu spalancata con un calcio e un plotone di SS in assetto di guerra si precipitò dentro di corsa gridando: “ALLES RAUS!” (“fuori tutti!”). Dopo un’accurata perquisizione personale ci ritrovammo all’aperto, mezzo svestiti e quasi tutti senza scarpe, assieme a quelli delle altre baracche.

Facemmo un rapido conto: per quella incursione dovevano aver mobilitato non meno di un intero reggimento. Una cosa grossa. Era chiaro che, prima di notte, il Comando Tedesco aveva dovuto rassegnarsi a dare la notizia dello sbarco. Di conseguenza la nostra euforia all’appello era la prova che sapevamo già, quindi che avevamo una radio. Ere proprio quella che cercavano, con tanto accanimento.

È molto strano che non tentassero neppure, con minacce di decimazioni e di torture, di farci parlare. Mi piace considerare che l’avessero considerata una perdita di tempo dopo che il fallimento dell’operazione ciliegie li aveva colpiti nel vivo come uno schiaffo.

Verso l’alba, quando se ne andarono ancora più imbestialiti, potemmo finalmente rientrare nelle baracche. Sembrava che fosse passato un uragano. Pagliericci e zaini sventrati, tavolette dei castelli smontate e buttate sul pavimento assieme alle nostre povere cose sparse qua e là, in un miscuglio infernale.

Stavamo tutti in silenzio a risistemare, raccattare, cercare le cose. E anche scambiandocele coi vicini: “Qui ci sono un paio di mutande e due foto di bambini”. Più d’uno si faceva avanti, guardava e riprendeva a cercare. Ma al centro di tutti i nostri pensieri stava Caterina: impossibile che con tutto quello sconquasso non l’avessero trovata.

Si andò avanti così fino a che, a mattina avanzata, un capitano degli alpini di un’altra baracca si stagliò controluce sulla porta spalancata, sussurrò qualcosa a quelli del castello più vicino e scappò via. Poi si udì un grido strozzato dall’emozione: “Caterina è salva! Coraggio! La va a pochi…!”.

Estenio Mingozzi

 

Note:

[1] La storia delle ciliegie è riferita nell’episodio “Macchie indelebili”, in “Ritorno alla base” di Giovannino Guareschi, ed. Rizzoli, Milano. Gli ufficiali, secondo Guareschi, furono centonove, contro la ventina citata da Mingozzi: ad ogni modo, un numero decisamente piccolo rispetto agli oltre 6.000 ufficiali racchiusi nel campo di Sandbostel.

[2] È possibile comprendere in parte le desolanti conseguenze delle perquisizioni per il morale degli Internati grazie alle fotografie scattate da Vittorio Vialli, e ai commenti dello stesso.

Pubblicato il 03/02/2007 – Ultimo aggiornamento: 03/02/2007