Carmelo Cappuccio

Carmelo Cappuccio

STORIA DI UNA RADIO CLANDESTINA

di Carmelo Cappuccio

Pagine 157-166

5 – Mimma

Intanto i medici italiani del campo fornirono in abbondanza il più vario materiale: acido solforico, ammoniaca, acqua distillata, stagno, martelli, pinze, forbici da lamiera, scatole di cera, petrolio. Tanta insperata ricchezza spinse Olivero e Tarini a dar realtà ad un sogno lungamente carezzato e che era sempre restato tale nonostante alcuni precedenti tentativi. “Caterina” non andava al di là delle onde medie: si voleva creare un apparecchio che captasse anche le onde corte. I due radiotecnici si posero all’opera e rapidamente costruirono una nuova piccola creatura che chiameremo “Mimma”. Angiolillo al solito partecipò attivamente a questa nuova creazione e costruì allora una impedenza servendosi delle “reggette” dei pacchi della CR americana e avvolgendo intorno ad esse 7400 spire di filo sottilissimo. Nel campo di Fallingbostel, al tramonto, i tedeschi toglievano la luce ed era quindi impossibile servirsi della corrente elettrica per alimentare la piccola “Mimma”. Fu necessario tornare alle pile.

In quei giorni Tarini pensò alla costruzione di batterie anodiche servendosi della pila di Volta. Sovrapponeva monete di rame alternate con dischi di zinco prelevato dai lavatoi e dischi di tessuto sforbiciato dalle nostre coperte e imbevuto di acido acetico.

“Mimma” spodestò “Caterina”: era un po’ più grande e meglio nutrita, ma aveva due valvole, funzionava magnificamente. Non stava più in un gavetta come la sua sorella, ma occupava anch’essa poco posto. Fu la nostra formidabile compagna negli ultimi durissimi mesi e svolse un’azione di propaganda che andò anche al di là del gruppo dei mille ufficiali italiani.

Il 16 febbraio, per far posto a dei nuovi prigionieri inglesi, fummo trasferiti dal campo centrale ad una sua dipendenza distante un chilometro: il Lager G, forse il più lurido dei campi in cui siamo vissuti. Le quattro baracche di cui era composto avrebbero potuto, a stento, contenere duecento ufficiali: vi fummo insaccati tutti e mille. Dormivamo per terra, utilizzando lo spazio fino all’assurdo, e i piedi di ognuno giungevano fino al volto del compagno che gli dormiva di fronte: bisognava adagiarsi su un fianco, perché non vi era posto per dormire supini. Solo tre stanzette avevano alcuni castelli: e vi collocammo gli ufficiali superiori e il gruppo radiotecnico. Al di là del nostro reticolato si apriva, da levante, un piccolo Lager di lavoratori francesi e iugoslavi e, da ponente a nord, un gruppo di baracche occupate da famiglie ucraine. Il Lager G dipendeva per tutti i servizi dal campo centrale, ed aveva sul posto, oltre le numerose sentinelle, un maresciallo, Wördel, e un sergente, Welding.

In questo sudicio Lager, il servizio di “Mimma” fu ripreso subito e perfezionato. L’ultimo giorno di dimora al campo centrale, Martignago aveva ottenuto da un ufficiale un accumulatore: era completamente solfatato e secco da molto tempo. Angiolillo lo sottopose a lavaggi di ammoniaca e pazientemente lo rimise in efficienza, perché rendesse possibile l’utilizzazione dell’energia elettrica concessa dai tedeschi soltanto in alcune ore del giorno.

I radiotecnici occuparono la stanzetta Federici, accanto agli ufficiali superiori. Sotto la inutile stufa, fu scavato un buco: la scelta del nascondiglio aveva uno scopo: la stufa con la sua massa di ferro e di ghisa avrebbe ostacolato, se non impedito, le perquisizioni con ricercatore elettromagnetico che si sapeva sarebbero state fra breve tempo compiuta da apposita squadra della Ghestapo di Amburgo. Il materiale stava in scatole di latta appositamente costruite, per evitare gli effetti dell’umidità del nascondiglio. Due fili sottilissimi, derivati dall’impianto della luce, giravano per la baracca, nascosti dentro l’incastro delle tavole paretali e finivano in due chiodi a cui stavano regolarmente appesi dei berretti. Il posto letto di Olivero e Martignago era in un angolo, il cosiddetto angolo sotto tensione. La sera alle 22, 23, la piccola radio “Mimma” veniva montata: si accendeva un lumino servendosi del petrolio contro le piattole fornito dall’infermeria: e cominciava l’ascoltazione. Prima parlava radio Londra nelle varie lingue, poi alle 22.30 si captavano le trasmissioni in onde corte della stazione “Italia Combatte”. Tutto veniva stenografato, con il solito sistema, da Olivero: subito dopo si procedeva alla trascrizione in chiaro con carta carbone per averne tre copie. Il freddo era pungente e non bastavano le coperte sotto le quali si nascondevano Olivero e Martignago. Il lavoro finiva all’una di notte: dopo di che la radio veniva smontata e tornava nel suo nascondiglio. Ma non era ancora possibile abbandonarsi al sonno: bisognava preparare tutto il necessario per ricaricare durante il giorno le batterie, perché, come ho già detto, i tedeschi toglievano la corrente al tramonto, e raramente si ebbe di notte la luce: il che divenne sempre più grave con l’intensificarsi, di giorno e di notte, degli allarmi aerei. Al primo accumulatore, di cui ho già accennato, se ne aggiunsero intanto altri due e il servizio divenne così sempre più efficace.

Per la visita medica gli ufficiali ammalati dovevano recarsi al campo centrale: ogni mattina, alle 7, si formava una fila di ufficiali. Le sentinelle, dopo aver contato e ricontato, se li mettevano in mezzo, e la schiera si avviava trascinandosi sugli zoccoli. Martignago era sempre nell’elenco dei malati. In tal modo giungeva al Lager principale portando con sé due copie del notiziario: una la consegnava ai medici italiani perché i ricoverati nell’infermeria avessero il conforto delle notizie, un’altra andava nelle mani di Gitano degli Esposti che con l’aiuto del serg. Formenti ne ricavava due copie in francese. Di esse una andava ai soldati italiani del campo, ai quali era detto che le informazioni provenivano dai francesi, l’altra copia veniva consegnata a monsieur Bacci, un prigioniero francese che se ne serviva per completare il bollettino preparato dai suoi connazionali. Perché nel campo centrale i francesi avevano qualche radio, ma collegata alla rete elettrica, e che quindi non funzionava neppure di giorno, per la sorveglianza tedesca.

A richiesta, una copia veniva preparata per un canadese, che la diffondeva in un altro settore del campo. Intanto al Lager G dalla copia rimasta in sede, la terza, ne venivano ricavate, da Talotti e Levere o da Talotti e Guerreschi, altre due: una passava nelle mani del cap. Balladori, che come interprete si recava al campo centrale e la forniva ai polacchi, l’altra era consegnata a Capalozza e Pisani, che la leggevano prima al comando, al ten. col. Guzzinati, e poi nelle varie baracche, ma solo dopo il ritorno degli ufficiali dalla visita medica, in maniera che le notizie apparissero provenienti dal campo principale.

Ogni giorno sul cielo del nostro minuscolo Lager passavano a centinaia le fortezze volanti: e parevano giocattoli d’argento, alte nell’azzurro, in una scia sonora che riecheggiava a lungo per l’orizzonte. Noi pensavamo allora alle trombe bibliche e nella musica dei motori coglievamo l’inno della libertà.

Ma più fitti diventavano gli stormi dei superbi velivoli, e più frequentemente i tedeschi ci toglievano la luce. Venne un giorno in cui la corrente non funzionò più; il Lager G non ne aveva bisogno, secondo il maresciallo Wördel, che era il nostro signore e padrone.

Non era più possibile caricare gli accumulatori nel nostro campo, e bisognò recarsi al Lager centrale, dove la luce di giorno veniva ancora concessa, per illuminare gli uffici e alimentare alcuni macchinari. Allora si stabilì lassù, nella stanza del maresciallo Boscaini, una diramazione di due fili ben nascosti, che andavano a finire sotto la branda del soldato Romelli: lì sotto era collocato un raddrizzatore identico a quello già adoperato nel Lager G. Ma bisognava portare ogni giorno gli accumulatori nel campo centrale, caricarli e riportarli in salvo alla piccola “Mimma”. Un problema difficile in cui era necessario tener conto delle perquisizioni che saltuariamente venivano effettuate sui nostri malati, all’ingresso del campo. Balladori e Martignago si legavano gli accumulatori tra le gambe e si avviavano ogni mattina attenti e guardinghi. Una impresa difficile, che a un certo punto fu complicata dall’orario della luce al campo centrale. Gli ufficiali italiani dovevano rientrare dalla visita medica entro le 10.30, e spesso a quell’ora la corrente non era stata ancora elargita dai tedeschi al Lager principale. Fu perciò necessario trovar modo di recarsi al centro anche in altre ore, nel pomeriggio. Da lassù venivano una o due volte al giorno dei soldati italiani, tirando il carretto dei nostri viveri: d’accordo con il ten. Gianny, addetto a quel servizio, Martignago si unì a volte ai soldati e tirò il carro con loro, sfuggendo alle sentinelle. Altre volte fece da ordinanza al seguito dell’interprete Balladori, e se ne andò su con lui, caricato di un pesante sacco. Ognuno di questi stratagemmi era pieno di pericoli, e richiedeva astuzia e coraggio, e consumava le poche energie che ormai Martignago aveva a disposizione. Nelle ultime settimane si teneva in piedi nelle ore più dure con della simpamina fornitagli dai medici italiani e francesi, ma le forze diminuivano ogni giorno.

Una volta il maresciallo tedesco, il piccolo Rommel, come noi lo chiamavamo, si accorse all’uscita che i soldati dei viveri erano aumentati di uno e prussianamente urlando, riuscì subito a individuare l’intruso, che era Martignago. Il maresciallo strillava inviperito, sospettava un tentativo di fuga, voleva sapere, portare a fondo la cosa: come un energumeno prese per il collo la sua preda e la trascinò al comando italiano per i primi accertamenti. Martignago aveva avuto il tempo di riprendersi e dichiarò, dinnanzi alle minacciose insistenze del maresciallo, che non voleva sfuggire ma solo recarsi all’infermeria. Wördel era rosso come un tacchino e continuava a strillare che per la visita medica vi era un’ora stabilita, e un regolare servizio, e che di quello avrebbe dovuto servirsi il prigioniero, e non andarsene a spasso con un trucco, tentando di giocare lui che non era mai stato giocato da nessuno. E Martignago a dire umilmente, che era domenica e che non vi era stata perciò visita, ma che egli aveva estremo bisogno dell’infermeria e occorreva che vi andasse tutti i giorni, senza saltarne nessuno. Il piccolo Rommel non era disposto a convincersi di tanta urgente necessità, che vi fosse una malattia così prussianamente implacabile, da aver bisogno di cure quotidiane, e che il possessore di un simile male potesse camminare come un uomo sano e normale. “Ma che malattia è mai la vostra? e che cure dovete fare” “Iniezioni”, badava a dire Martignago “tante iniezioni” e additava il braccio e il resto del corpo alternativamente, con un viso avvilito. “Che malattia?” insisteva il Wördel, implacabile. Allora Martignago ebbe uno dei suoi lampi geniali e, ricordandosi che per il campo correva la voce, venuta dagli ucraini, che il piccolo Rommel fosse un vecchio conquistatore di facili amori, dopo parole reticenti di vergogna e raccomandazioni di mantenere il segreto, a pezzi e a bocconi, pian piano, esitando, confessò di portarsi addosso i postumi di una vecchia sifilide conquistata in Grecia. Il viso del vecchio si rasserenò. Aveva forse incontrato un compagno: si ricordò degli acciacchi che corrodevano la sua vecchia carcassa, ritrovò la bandiera delle sue antiche e recenti battaglie, e cessò di strillare, improvvisamente addolcito. “Ma anch’io sono un uomo, che diamine! Potevate confessare prima. una malattia così grave, deve essere curata. Capisco, capisco la vostra vergogna: ma non temete: io non parlerò. E intanto vi farò un ausweis, un permesso perchè possiate recarvi all’infermeria tutti i pomeriggi, anche la domenica, e vi darò una sentinella. Vi darò una sentinella!”

Così i tedeschi che non riuscivano a farci collaborare all’economia del grosso Reich, collaboravano essi, involontariamente, alla organizzazione italiana.

Negli ultimi tempi la luce mancò al campo centrale, ed erano proprio i giorni in cui si iniziava l’offensiva anglo-americana sul Reno. Non era possibile che “Mimma” tacesse. Ricordo che un giorno, alle 15.30 gli accumulatori erano scarichi e la corrente non era ancora venuta. La sera non avremmo avuto notizie, e ormai tutto il campo, 25.000 persone, contavano su “Mimma”. Allora Olivero decise la costruzione di pile all’acido nitrico: Martignago col suo ausweis (permesso di transito) si portò la sua sentinella al campo cenrale e lì mobilitò Boscaini, i medici, il canadese, i francesi. Dopo due ore tornava giù con tre bottiglie di acido nitrico accuratamente nascoste nei pantaloni e scortate dalla sentinella “imbaionettata” e passava curvo, trascinando una gamba, dinanzi al vecchio maresciallo, che gli espresse il suo rammarico per quelle dolorose iniezioni che irrigidiscono i muscoli. “Mimma” la sera parlò come sempre e ci disse tra l’altro le parole che attendevamo: “Le Rhin a été franchi!”.

Intanto, già la fama dei nostri radiotecnici si era diffusa tra i prigionieri, e si erano stabiliti cordiali rapporti con i francesi che facevano capo all’organizzazione della “Résistance”. Un giorno Tarini andò su al campo centrale per la visita medica, ma in realtà chiamato dai soldati francesi della “Résistance”: dopo avergli fatto giurare che avrebbe mantenuto il segreto, e avergli raccontata la fine fatta da un loro compagno che aveva parlato, lo condussero in un nascondiglio sotterraneo, dove era una radio guasta, e gli chiesero di ripararla: ed egli la guarì perfettamente. Dopo di allora i rapporti con la “Résistance” si fecero sempre più cordiali: i francesi ci fornirono il loro giornaletto clandestino, ci assicurarono la loro collaborazione, inviarono agli ufficiali italiani il loro saluto e la loro ammirazione per la tenace resistenza di cui avevano dato prova. Due nostri ufficiali, Martignago e Zamboni, entrarono a far parte della loro organizzazione. Non solo: i francesi permisero ad essi di compilare un giornale, dal titolo “Risorgere”, che arrivò al secondo numero e che, tirato in alcune centinaia di copie, fu diffuso, servendosi di lavoratori, tra i soldati italiani di Hannover e di altri centri minori.

La nostra organizzazione era ormai perfetta, e cresceva di potenza e di audacia quanto più si avvicinava la fine del colosso tedesco. Da una radio trasferita segretamente nel nostro lager, perché fosse guarita di un guasto, Olivero e Tarini in quei giorni tolsero la valvola di potenza e iniziarono la costruzione di una piccola stazione trasmittente, che era già a buon punto, quando gli inglesi della 2ª armata raggiunsero e liberarono il nostro campo, assai più sollecitamente di quel che potessimo sperare.

Su al campo centrale, nella stanzetta di Boscaini, Martignago aveva incontrato, un pomeriggio, uno strano sergente delle S.S. Nell’aria vi era ormai l’odore intenso dell’ora dell’espiazione. Qualche sentinella pronunciava parole di condanna alla guerra, altre si dicevano austriache, o alsaziane o boeme: pareva un movimento di fuga in cui di tedeschi non ce ne fossero più. Il sergente parlava l’italiano discretamente e si addentrò in uno sfogo piuttosto lungo e amaro. Diceva di aver dovuto entrare nei reparti delle S.S. per evitare la deportazione del padre e di un fratello comunista, ma di odiare Hitler e la sua guerra ingiusta e violenta. Martignago lo interruppe insinuando che aveva già incontrato sulla propria via molti agenti provocatori e osservando che gli uomini si conoscono ai “fatti” e non alle sole parole. Ma il sergente insisteva, che sempre egli aveva aiutato gli italiani, anche nella ritirata da Roma su Cassino, e che era pronto a dimostrare quante volte avesse passato del pane ai nostri prigionieri, e impedito che fossero puniti e Martignago a ribattere che tali azioni non uscivano dal piano della comune umanità e che di simili ne avevamo compiuti noi stessi, tante volte, verso gli stessi tedeschi. In breve, il sergente si offrì di portare da casa sua nel Lager italiano un apparecchio radio. Chiedeva in compenso difesa e protezione nel momento del crollo e il suo volto si illuminò di gioia quando Martignago, scherzando, gli promise la protezione del partito comunista italiano. Così il sergente chiese ed ottenne una licenza e, dopo qualche giorno portò a Martignago un apparecchio radio a galena ed un’ottima cuffia. Il sergente da allora divenne il nostro strumento, un’informatore utilissimo: da lui Martignago seppe che nel nostro Campo i tedeschi non erano riusciti a crearsi una spia, che squadre della Ghestapo sarebbero presto venute a sorprenderci per un’accurata perquisizione; che si avvicinava il nostro trasferimento a Buckenwald. Fu lui ad avvertirci negli ultimi giorni che per carità evitassimo in ogni modo di partire con i tedeschi quando avessero abbandonato Fallingbostel. Ormai riceveva ordini, ma era lento e pesante, come spesso i tedeschi. Alla fine, nel momento conclusivo, aveva perduta la testa: chiedeva a Martignago come dovesse comportarsi, invocava ordini, prometteva una cassetta di pistole. Ma ordini nessuno si sentiva di dargliene, e Martignago si limitò a qualche vago consiglio: che si vestisse in borghese e si nascondesse, abbandonando il suo reparto che si accingeva a sgombrare. Poi si sarebbe esaminato il da farsi. Ma egli voleva ordini, non consigli. Da troppi anni era abituato ad obbedire, non a scegliere col suo cervello: e tra Martignago che lo consigliava e i suoi superiori che gli urlavano degli ordini, dovè sentire più forte il fascino di quella dura disciplina alla quale era ormai costituzionalmente abituato. E scomparve con gli ultimi reparti tedeschi, atomo indissolubilmente legato a una macchina infernale che correva alla rovina.

Il 16 aprile, dopo giorni di febbrile ansia e di rinnovati pericoli, giunsero dinanzi al nostro Lager i carri armati inglesi, e tra la nostra frenesia e i nostri urli di gioia, i vincitori spezzarono i moschetti delle nostre ultime sentinelle e ci restituirono alla libertà e alla vita. Uscimmo, dopo due anni, a camminare per le vie del mondo: e ci pareva che da ogni parte della terra, il cielo, i fiumi ci salutassero come sopravvissuti. Portavamo dentro di noi una fiducia profonda: che il nostro martirio, che la nostra fede nella giustizia e nella libertà potessero valere ad allontanare dalla nostra terra la condanna, le miserie e la rovina a cui l’avevano trascinata vent’anni di dittatura. Ma forse eravamo bambini, eternamente illusi sul trionfo della giustizia.

 

 

A conclusione del racconto, nell’edizione ANEI del 1983 è stata inserita una piccola dedica:

Ricorderemo doverosamente altri audaci radio-operatori: il ten. Luigi Lombardi che, scoperto a Sandbostel nel settembre ’44, venne condannato da un tribunale militare di Amburgo a 2 anni di carcere; ne uscì fortunatamente nell’aprile del ’45; e con la “Philips” di Lombardi, un’altra radio, dei tenenti Fernando Bacicchi e Ugo Dragoni, che riuscì a sfuggire a tutte le perquisizioni e i trasferimenti. Ritornò in Italia, a Firenze, ma andò perduta nell’alluvione del 1966. Quanto alla “Mimma”, essa è stata donata nel 1968 dal col. Aldo Angiolillo al museo “ANEI” di Padova, ov’è tuttora esposta.

 

Si ringrazia l’Associazione Nazionale ex Internati (ANEI) per avere autorizzato la pubblicazione. Ci limiteremo a riprodurre esclusivamente il materiale relativo ai ricevitori radio, invitando alla lettura delle pubblicazioni complete per approfondimenti.

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Pubblicato il 06/11/2006 – Ultimo aggiornamento: 06/11/2006