Carmelo Cappuccio

Carmelo Cappuccio

STORIA DI UNA RADIO CLANDESTINA

di Carmelo Cappuccio

Pagine 157-166

2 – La nascita di Caterina

Fu il magg. Dario Santilli a muovere la macchina: un ufficiale instancabile nella sua azione di resistenza ai tedeschi, e che era venuto nei campi di concentramento dopo aver combattuto ed esser stato ferito nella difesa di Roma, dopo l’8 settembre. Gli stava a fianco il cap. Tranquilli che aveva conservato, nonostante la fame, un pugno di acciaio. In breve, dopo varie vicende, si poté raccogliere il materiale indispensabile per la creazione di una radio: fu una specie di colletta, come si fa per la nascita dei bambini poveri. Martignago fornì una valvola ed alcune pile da un volt e mezzo, altre pile le procurò Santilli, e furono così 8 complessivamente. Angiolillo offrì il condensatore variabile e la cuffia della sua vecchia radio, e riuscì a costruire una resistenza con della carta e della grafite: Olivero creò con un portasapone un’ottima bobina. Questo materiale ed altro indispensabile fu consegnato al mago della radio, Olivero, che dopo vari giorni di lavoro e di prova, portò a termine la creazione di “Caterina”. La sera del 4 novembre la piccina recitò per la prima volta la trasmissione di radio Londra, tra la felicità del gruppo che le aveva dato la vita. Era una creatura piccolissima, sistemata in una esigua cassettina di legno: entrava comodamente in una gavetta, ma aveva un organismo perfetto. Le necessità per mantenere viva e vitale la piccola furono molte, e mentre parlava già per tutto il campo, e svolgeva un’attiva propaganda di cui diremo in seguito, i suoi creatori dovevano assiduamente lavorare a tenerla desta e ad alimentarla, provvedendo materiale, migliorando la sua alimentazione, perfezionando ogni giorno il suo livello di vita. La sera Olivero si chiudeva nel luogo scelto per l’ascolto (dapprima alla 29A, poi dal cap. Develli o dal cap. Malaguti, infine stabilmente nel magazzino di G.B. Talotti) e per lunghe ore viveva con la sua “Caterina”, mentre il Lager era già immerso nel sonno. L’apparecchio è ancora rudimentale ed ha bisogno di un trattamento appropriato. Il misterioso mago si installa nel silenzio della stanzetta: l’antenna sta fra i suoi denti, il suo piede sinistro si alza e si abbassa continuamente, come se egli sognasse di pedalare su ampie vie soleggiate: è l’unico mezzo per variare la capacità e regolare così la reazione. Ascolta in italiano, in francese, in inglese, in tedesco, con perfetta sicurezza: e intanto scrive in una specie di stenografia che intende lui solo. Sono i primi tempi. Intanto, durante il giorno e la sera e la notte, Angiolillo lavora e fornisce i pezzi che gli sono richiesti.

Si imponeva anzitutto il problema delle pile, di molte pile, perché “Caterina”, nata povera, non poteva pensare ad allacciarsi alla rete elettrica. Dapprima si raccolse tutta l’ammoniaca che si poté avere dalla cosiddetta infermeria, dove languivano nella miseria parecchi tubercolotici: ma risultò troppo allungata e quindi poco efficace. Allora si mobilitarono tre chimici del campo, i proff. Balconi e Tarli e il ten. Guerreschi. Costruirono un piccolo laboratorio segreto, dove tentarono invano l’inimmaginabile: l’estrazione dell’ammoniaca prima dall’orina poi dai capelli. Tentativi falliti: e intanto “Caterina” consumava velocemente le pile efficienti e chiedeva aiuto, come un bamboccino invoca il latte per non morire. Il sale c’era, ma sempre in minor quantità perché in quel tempo i tedeschi si avviavano rapidamente alla confezione della sbobba senza sale. I nostri luridi lavatoi perdevano lo zinco, tra l’ira di chi non comprendeva una così strana collezione di quel metallo e le minacce dei tedeschi che ci accusavano di sabotaggio. Ma con tutto ciò non si rimediava all’esaurimento delle pile: e la morte per inedia incombeva già anche su “Caterina”. Allora si pensò ad allacciarsi alla corrente alternata. In tal modo si sarebbe eliminato l’inconveniente delle pile sempre insufficienti, continuamente in esaurimento, tormentoso rompicapo di Angiolillo, che ne costruiva dieci e ne vedeva morire nove, da un giorno all’altro. Con l’utilizzazione della rete elettrica, sarebbe rimasta la sola pila di accensione e la vita di “Caterina” sarebbe stata salvata.

Perciò Olivero e Angiolillo si posero all’opera. Bisognava anzitutto raddrizzare la corrente, trasformare cioè la corrente alternata in continua, il che fu eseguito, con la costruzione di un raddrizzatore a valvola.

Ma il problema consisteva nella fabbricazione di condensatori a forte capacità. Martignago fece in quei giorni una vera razzia di stagnola attraverso mille stratagemmi, e di pacchetti di cartine per sigarette: Angiolillo si pose al lavoro e riuscì a costruire vari condensatori, sovrapponendo pazientemente, a centinaia, cartine per sigarette alternate con foglietti di stagnola. Lavorando giorno e notte nonostante la fame e il freddo, i condensatori furono pronti, ma alla prova ci si accorse che potevano servire solo per tensioni bassissime. Bisognava rafforzarli con bagni di paraffina, una sostanza introvabile per gli uomini del Lager: era lo stesso che volere la luna. Martignago pensò allora a dei surrogati: fece un’incetta di candele, ne ottenne alcune dai sacerdoti, e mise a bollire i condensatori nella cera disciolta. Ma fu un fallimento: la cera delle candele è acido stearico e così alcuni condensatori faticosamente costruiti furono irrimediabilmente perduti. Talotti, il cui magazzino era il quartier generale del gruppo, avanzò la proposta di un nuovo surrogato. I tedeschi ci distribuivano ogni tanto dei vasetti di “brillantina”, un lurido grasso che noi adoperavamo per gli scarponi, a ritardarne l’ormai avanzata putrefazione. I vasetti scomparvero e i chimici manipolarono la brillantina per ricavarne la vasellina. Altro tentativo inutile, tanto scarsi se non addirittura nulli furono i risultati. Ed era sempre così, data la miseria dei mezzi: bisognava procedere per tentativi e spesso lavorare invano per giorni e giorni, per veder poi crollare ogni speranza concepita. “Caterina” stava per tacere definitivamente, in un momento particolarmente delicato.

Fu allora che Angiolillo lanciò l’idea di costruire un condensatore elettrolitico. Tutti, compreso Olivero, considerarono l’idea come inattuabile e giudicarono folle il solo tentativo. Se aprite un trattato vi leggerete che la costruzione di un condensatore elettrolitico è difficilissima, si richiedono due piastre di alluminio purissimo, di cui una ossidata, che funziona da armatura positiva, l’altra invece chiamata a provocare il contatto. Tra le piastre deve stare un liquido misterioso di cui i trattati non danno notizie e che funziona da armatura negativa, e ricostruisce continuamente l’ossidatura. Una garza sta interposta fra i due piastrini di alluminio. Si presentavano dunque due gravi difficoltà: trovare dell’alluminio purissimo e scoprire un surrogato del misterioso liquido attraverso varie ipotesi e tentativi. Per l’alluminio si poteva tentare con qualche barattolo di quelli che i prigionieri francesi, gli aristocratici del nostro campo, ricevevano nei pacchi della CR: e così fu fatto, ma il liquido, l’elettrolita, rimaneva sempre un mistero. Pure si volle tentare e Olivero e Angiolillo si immersero negli studi necessari. Sotto il palcoscenico del nostro modestissimo teatrino, Angiolillo si nascose con i mezzi che si poterono realizzare e lavorò a lungo, tenacemente, finché la sua fatica fu coronata dal successo, quando scoprì nel bicarbonato di soda un efficacissimo surrogato del misterioso elettrolita.

È difficile per chi non ha competenze tecniche come me, dire tutte le difficoltà che fu necessario sormontare, difficilissimo poi per chi non abbia vissuto in un Lager di italiani, intendere in quale ambiente si svolgevano tante fatiche. Non aver nulla, assolutamente nulla, fuorché la propria miseria: soffrire la fame fino a svenirne. Ogni giorno, durante i lunghi appelli, 4, 5, 10 ufficiali stramazzavano a terra sfiniti: la tubercolosi avanzava minacciosa e spesso il compagno di castello, un ragazzo pieno di speranze, se lo portavano via, per uno sbocco di sangue. Non avevamo più scarpe, ma ruderi e tronconi di calzature, le coperte erano insufficienti, le stufe spente: fuori si ammucchiava la neve, che si irrigidiva la notte in lastroni di ghiaccio: da casa non si sapeva più nulla, i pacchi delle famiglie erano ormai sempre più rari. L’Italia, lontana, pareva una terra perduta per sempre, tutta odi, sangue, sventure. I tedeschi urlavano, contavano i nostri sospiri, perquisivano, disprezzavano: ogni settimana si presentava una commissione di borghesi, ci invitava ad uscire dal campo, per raccogliere ciliege, filare la canapa, rimuovere le macerie dalle città bombardate, zappare la terra tedesca, raccogliere nei campi le patate. Resistere, rifiutare ogni collaborazione, era la parola d’ordine: ma pochi potranno capire quanto sia costata la nostra resistenza. In questo ambiente si svolgeva l’accanito lavoro di cui vi parlavo. Il condensatore elettrolitico venne alla luce e fu tra i più bei regali che allietassero l’infanzia di “Caterina”. Ma un altro splendido regalo le era stato fatto alcune settimane prima. Nel campo, un ufficiale, il cap. Sacripante, aveva un apparecchio a galena: valeva ben poco ma era fornito di un’ottima cuffia. Dopo varie vicende, essa passò definitivamente in possesso del ten. Calcaterra, e servì ad ascoltare le parole di “Caterina”: ne fu l’ossigeno sino al giorno in cui Calcaterra, partendo per Wietzendorf (23 gennaio ’45), portò con sé il prezioso talismano. Ma tre giorni dopo gli ultimi mille ufficiali rimasti nel Lager di Sandbostel furono trasferiti anch’essi, e “Caterina” li seguì nella nuova odissea di Fallingbostel.

 

Si ringrazia l’Associazione Nazionale ex Internati (ANEI) per avere autorizzato la pubblicazione. Ci limiteremo a riprodurre esclusivamente il materiale relativo ai ricevitori radio, invitando alla lettura delle pubblicazioni complete per approfondimenti.

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Pubblicato il 06/11/2006 – Ultimo aggiornamento: 06/11/2006